Ogni datore di lavoro che desideri licenziare un proprio dipendente può inviare la lettera di licenziamento senza indicare le ragioni di tale atto. Per questo motivo il dipendente può spedire a sua volta un’altra lettera, in cui chiede esplicitamente al suo capo di comunicare, entro pochi giorni dalla lettura della medesima, le ragioni dell’interruzione della collaborazione lavorativa, avvalendosi quindi dell’articolo 2, comma 2, della Legge n. 604 del 1966.
Nel caso in cui il datore di lavoro risponda, indicando per scritto motivazioni reali e valide, il licenziamento va a buon fine, mentre se il datore di lavoro si rifiuta di esporre le ragioni o non propone ragioni valide, può essere sottoposto a un procedimento penale e risulta essere obbligato anche alla riassunzione del dipendente e al pagamento degli stipendi degli ultimi mesi.
La Corte di Cassazione, infatti, ha ribadito con la sentenza 17122 del 10 luglio 2013 che se l’eventualità sopra esplicata avvenisse, il lavoratore avrebbe diritto
Sia a un indennizzo risarcitorio, in misura compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tale risarcimento sarebbe quindi costituito dallo stipendio perso durante il periodo di licenziamento e della mancata esposizione dei motivi.
Sia alla riassunzione, naturalmente, per portare a compimento tale procedura, è necessario valutare che il dipendente non abbia tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.
Secondo la legge, la validità del licenziamento dipende in ogni sua forma dalla modalità in cui viene esposta per iscritto, e il datore di lavoro è obbligato a comunicare le motivazioni del licenziamento, se vi è la richiesta del lavoratore, entro e non oltre i 15 giorni dall’invio della lettera. La legge stabilisce anche l’inefficacia del licenziamento, nel caso in cui non si osservino tali formalità.
In un primo momento i pareri della giurisprudenza si erano divisi in due, in quanto un orientamento riteneva che il dipendente dovesse avere diritto soltanto e in maniera unica al risarcimento del danno compreso tra 2,5 e 6 mensilità, visto che non vi erano più le condizioni che permettessero la continuazione regolare del rapporto lavorativo, un secondo orientamento, invece, credeva sia nel risarcimento del danno che nella ricostituzione del rapporto di lavoro medesimo. La Corte di Cassazione ha aderito a quest’ultimo orientamento con la sentenza 17122/13, che si è progressivamente consolidata.